La Scimitarra di Budda/34. Il Khium-Dogè

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34. Il Khium-Dogè

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34.

IL KHIUM-DOGÈ


Non si può immaginare con quali ansie gli avventurieri aspettassero la mezzanotte. Rannicchiati nella diroccata capanna, tenevano gli occhi fissi fissi sui loro orologi, contando minuto per minuto, senza parlare, senza nemmeno guardarsi in faccia per non perdere di vista le sfere che camminavano con una disasperante lentezza.

Cosa davvero strana; quegli uomini che avevano sfidato pericoli terribili e fatiche straordinarie, che avevano compiuto uno dei più prodigiosi viaggi che mai fossero stati fatti attraverso la selvaggia penisola indocinese, che tanti e tanti disinganni avevano di già provato, tremavano come se avessero la febbre. C'era però di che tremare e molto. Era la penultima carta che gli arditi avventurieri stavano per giuocare. Se la Scimitarra di Budda non si fosse trovata nella Città degli immortali, ove rivolgere le ricerche? Alla gran piramide dello Scioè-Madù. E poi? E se non si fosse trovata nemmeno allo Scioè-Madù? Il timore di una sconfitta scombussolava e faceva tremare quegli uomini che avevano cento volte affrontato, sorridendo, la morte. Quando le lancette degli orologi segnarono le undici e mezza, scattarono in piedi come un sol uomo, colle carabine in mano.

– Coraggio, amici – disse il Capitano, la cui voce tremavagli. – Si giuoca la penultima carta.

– Il cuore mi batte come se fossi un soldato che va per la prima volta al fuoco – esclamò l'americano.

– Ed io ho la febbre addosso – confessò il polacco. – Dio faccia che non incontriamo le guardie notturne!

– Se le incontriamo le metteremo in fuga – disse il Capitano con accento quasi feroce. – Questa notte nessuno può sbarrarci la strada, nemmeno il dio dei birmani.

I quattro avventurieri uscirono sulla strada. Era una notte bellissima, tiepida, profumata. Una luna chiarissima splendeva nell'azzurro del cielo, riflettendosi vagamente nelle acque del fiume e rischiarando come in pieno giorno l'addormentata Città degli immortali; una fresca auretta, carica di delicati profumi e che faceva tintinnar i campanelli delle pagode e frullar le bandiere e dondolar le catene degli heetel di ferro dorato. Non una finestra illuminata, né una porta aperta, né una persona nelle vie. Non una voce, non un grido, non una cantilena, non una barcarola. Non udivasi che il gorgoglìo della superba fiumana che rompevasi contro le ripe, contro gli scogli e contro le centinaia di barche ancorate. Procedendo cauti, l'un dietro l'altro, col fucile sotto il braccio, risoluti di dar battaglia alle guardie notturne piuttosto che retrocedere di un sol passo, alle dodici giungevano nel vasto piazzale dove rizzavasi maestosamente il Khium-Dogè, o monastero reale, uno dei più begli edifizi di Amarapura, degno di star di fronte alla gran piramide dello Scioè-Madù, a quella di Rangun e alle gigantesche pagode di Pagan e di Mengun. Era immenso, cinto da muraglia e da colonnati variopinti, tutto fregi, oro, comignoletti, punte, guglie, e che alzavasi in parecchi piani i quali restringevansi man mano che s'avvicinavano all'heetel di ferro dorato.

– È superbo, Giorgio – disse James.

– È meraviglioso, James. Vedete il siamese?

– No – rispose l'americano, girando lo sguardo intorno.

In quell'istante un fischio acuto echeggiò in un angolo della piazza.

– Il siamese! – esclamò il Capitano.

Munito di una lanterna, di un rotolo di corde, di una scure, di martelli, scalpelli e tenaglie, il siamese tosto raggiunse il Capitano.

– Ci siete tutti? – chiese egli.

– Tutti – rispose Giorgio.

Fece una corsa per la piazza per assicurarsi che non c'era alcuna spia, accese la lanterna e ritornò presso gli avventurieri.

– Andiamo – diss'egli.

S'avvicinarono alla muraglia, tutta screpolata, alta pochi metri e la ispezionarono attentamente, temendo che nel varcarla diroccasse.

– Ci sono dei raham dentro? – chiese l'americano al marinaio.

Il siamese parve colpito da quella domanda.

– Chi lo sa? – disse incrociando tranquillamente le braccia.

– Lo ignori?

– Lo ignoro, signore.

– Se ne incontreremo li legheremo.

– Parlate bene, signore – disse il siamese sorridendo. – Orsù, all'opera, prima che le guardie notturne ci sorprendano.

L'americano, che in quel momento si sentiva capace di sollevare una casa intera, si appoggiò alla muraglia e sulle sue spalle salirono il Capitano, poi il polacco, indi il siamese. Min-Sì prese lo slancio e con una sveltezza senza pari guadagnò la cima di quella colonna umana, aggrappandosi all'orlo della muraglia. La colonna umana si spezzò nel momento che il cinese svolgeva una lunga e solida corda. Legò una estremità ad una grossa sbarra di ferro e gettò l'altra ai compagni. La scalata fu eseguita in pochi istanti da quegli uomini che si sentivano il sangue ardere. Si accomodarono sulla cima della muraglia e ascoltarono trattenendo il respiro e guardando con curiosità la imponente massa del monastero che proiettava su di essi una gigantesca ombra. Non udirono nulla, né videro nulla fra la foresta di colonnati variopinti che circondava e sosteneva l'edificio. Solamente in aria, scosse dal venticello notturno, tintinnavano le catenelle dorate e i campanellini delle griglie e delle arcuate grondaie.

– Tenete pronte le pistole e scendiamo – disse il siamese impugnando un lungo coltello.

Ritirarono la corda, la gettarono nell'interno del recinto e, ad uno ad uno, in silenzio, colle orecchie tese, gli occhi ben aperti, discesero.

Su di un basamento di dodici piedi d'altezza si elevava il grande monastero, costruito tutto in legno, cinto da centinaia di colonne coperte di dorature, da balaustrate finamente scolpite e da una grande piattaforma. Il siamese col coltello nella dritta e la lanterna nella sinistra, il Capitano, l'americano, il cinese e il polacco colle pistole in mano salirono una gradinata che gemette sotto il loro peso. Avevano di già attraversata la piattaforma e si erano introdotti nella galleria che immette nel tempio, quando s'arrestarono di botto urtandosi l'un l'altro. Da una fessura delle tavole trapelava un sottile raggio di luce che riflettevasi sulle dorate balaustrate.

– Alt! – mormorò il siamese, che provò un forte brivido.

Giorgio armò le pistole.

– Compagni, – disse con maschio accento – non si dirà che abbiamo sfidato quattro mesi di sofferenze e di pericoli per arrestarci all'ultimo momento. Sacerdoti o guardie, ombra o dio, si vada innanzi, ché la Scimitarra di Budda forse è là.

Strappò al siamese la lanterna e si cacciò arditamente nella galleria. Gli altri, elettrizzati da quelle parole e incoraggianti dall'esempio, si precipitarono dietro di lui, poco badando al rumore dei loro passi.

Percorsero la galleria, varcarono la seconda balaustrata ed entrarono nel monastero, che era sostenuto da innumerevoli colonne coperte d'oro con la base dipinta di rosso, distanti cinque metri l'una dall'altra e che, man mano che si avvicinavano al centro della spaziosa sala, s'alzavano vieppiù. Per la seconda volta gli intrepidi avventurieri si arrestarono. Avevano visto due punti verdastri che brillavano fra le tenebre, e udito un sordo brontolìo che nulla aveva di umano e un cupo fragore di catene.

– Cosa c'è? – domandò James, impallidendo.

Un nuovo fragore di catene rimbombò nel tempio. Si sa che gli avventurieri erano coraggiosi, tuttavia, nello scorgere quei due punti verdastri e nell'udire quegli strani rumori, ebbero paura. Il siamese sentì rizzarsi sul capo i pochi capelli che aveva.

– Che sia Gadma irritato? – mormorò egli, con voce tremante.

– Ora lo sapremo – disse Giorgio.

Fece quattro o cinque passi innanzi e alzò la lanterna. A cinque passi brontolava una magnifica tigre reale, incatenata ad una colonna.

– Battiamocela – balbettò il siamese.

– Chi si muove è un uomo morto!

– Ma non possiamo passare – disse il polacco. – La tigre chiude il passo.

– Si passerà – rispose il Capitano, che camminò diritto verso la belva.

– Giorgio! Giorgio! – esclamò l'americano.

– Avanti, James!

La tigre, sino allora rimasta accovacciata, vedendo quegli uomini avanzarsi, si alzò col pelo irto, gli occhi contratti, la bocca aperta.

– Fuoco! – esclamò il Capitano.

Tre detonazioni scossero il monastero, seguite da un furioso ruggito e da uno strascicamento di catene. La tigre, colpita a morte, spiccò due salti in aria, poi cadde dibattendosi disperatamente fra le strette dell'agonia. Il polacco la finì con un quarto colpo di pistola.

– Dov'è il dio? – domandò il Capitano precipitandosi innanzi.

Il siamese s'accostò ad una tramezzata che divideva in due parti eguali il tempio e aprì una gelosia alta quasi diciotto piedi. I raggi della lanterna illuminarono tosto una statua di pietra di gran mole, assisa su di un trono di oro.

Il Capitano, l'americano, il polacco e il cinese si slanciarono verso Gadma. Lo stesso grido che aveva rimbombato nel tempio di Yuen-Kiang, rimbombò dinanzi alla statua del dio dei birmani.

– Nulla!... Ancora nulla! – esclamò il Capitano con voce strozzata.

E rimase lì come pietrificato, pallido, trasfigurato, gli occhi ferocemente fissi sulle braccia di Gadma, che non sostenevano più la Scimitarra di Budda.

Un impeto di furore si impadronì allora di quegli uomini, che per la seconda volta vedevano sfasciarsi le loro speranze. Si slanciarono chi qua e chi là, rovistando per ogni dove l'edificio, spostando gli idoli, rovesciando i vasi, battendo le colonne, guardando dappertutto. Nulla trovando nella sala, si cacciarono nelle gallerie, si inerpicarono sui tetti, sulle guglie, sui comignoletti, sulle aste di ferro; poi ridiscesero tornando a rovistare il tempio, ma senza miglior esito: la Scimitarra di Budda non era più nel monastero reale di Amarapura.

Cosa era accaduto dunque di quella disgraziata arma che cercavano da quattro lunghi mesi con un accanimento senza pari? Dove l'avevano nascosta i birmani? Era ancora in Birmania, oppure era stata venduta? Avevano forse gli arditi avventurieri seguita una falsa traccia? Dovevano dunque quegli sforzi giganteschi operati fra le selvagge regioni dell'Indocina andare perduti?

– Tutto è finito! – esclamò l'americano che non aveva più alcuna speranza. – La Scimitarra di Budda non esiste!

Il Capitano, che guardava ancora con occhio feroce il dio, a quelle parole si scosse. Quell'uomo d'acciaio, per un istante curvato dal fiero colpo, si rialzò più energico che mai.

– No! – diss'egli con fermezza. – No, tutto non è finito, compagni! No, l'ultima speranza non è ancora perduta. Chi è che dice che la Scimitarra di Budda non esiste? Sì, esiste, James; esiste, e noi la troveremo. Amici, James, Casimiro, Min-Sì, allo Scioè-Madù! Perché disperare quando abbiamo ancora una carta da giuocare? Tutti allo Scioè-Madù, amici, tutti al Pegù, e possa laggiù arriderci la vittoria che ci fu negata a Yuen-Kiang e nella Città degli immortali!

Il tuono energico, la sicurezza con cui il Capitano aveva parlato, il nome di Scioè-Madù che trovava una strana eco nel cuore di quei coraggiosi avventurieri, fece ritornare in tutti la speranza.

– Allo Scioè-Madù! Allo Scioè-Madù! – dissero ad una voce James, Casimiro e Min-Sì.

Ormai non c'era più nulla da fare in quel monastero. I quattro avventurieri e il siamese lasciarono la sala, guadagnarono la galleria e uscirono sulla piattaforma. La luna era già tramontata e all'oriente scorgevasi una larga striscia d'argento. Fra mezz'ora, e forse meno, il sole doveva apparire sulla linea dell'orizzonte.

Varcarono in fretta la cinta e si lasciarono cadere dall'altro lato.

– Dove andiamo? – chiese l'americano.

– Al molo – disse Giorgio. – Non abbiamo più nulla da fare ad Amarapura.

Il Capitano si volse verso il siamese e gli mise in mano le altre quaranta once d'oro dicendogli:

– Le hai guadagnate.

Il bravo marinaio le ricevette quasi di malavoglia.

– Non dovrei accettarle, – mormorò – giacché la Scimitarra non fu trovata. Quando partite, signore?

– Fra un'ora, se sarà possibile.

– Ascoltatemi, padrone. Ho molte conoscenze in città e potrei sapere qualche cosa sull'arma che voi cercate. Vi spiacerebbe differire la partenza di cinque o sei ore?

– No.

– Ebbene, a mezzodì trovatevi nella trattoria. Spero di potervi dare qualche buona notizia.

– Ci sarò.

– Addio, signore. Contate su di me.

Il Capitano strinse la mano al giovinotto, il quale si allontanò poi subito rapidamente.

– Cosa facciamo? – domando James.

– Aspetteremo – rispose il Capitano. – Chissà! Non si sa mai. Alla nostra capanna, amici!